Giovanni Lombardini - Lipotimia Del Colore

Saranno esposte 50 opere prodotte dal 1980 al 2019.
a cura di Massimo Pulini.
Ogni pittura è fatta di materie governate da leggi universali che, innestando la chimica con la fisica, le trasformano da una condizione fluida a uno stato solido. A monte ci stanno strumenti gestiti dall’esperienza, mentre senso e sentimento indicano in ogni istante la strada, si prendono cura di tutto quel che il terreno fa incontrare nel percorso e sono le prime due attitudini dell’autore a giudicare la riuscita del viaggio. L’atelier di ogni pittore è abitato da una grande varietà di attrezzi e utensili, talvolta indispensabili per agevolare l’atto del dipingere.
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Sono fatti di materie le superfici sulle quali il colore viene depositato e la preparazione dei supporti è una fase fondamentale e diversa per ogni artista, ma da secoli implica un lavoro d’officina e di falegnameria. Anche per questa ragione un capitale libro di Roberto Longhi sulla pittura estense del Quattrocento si intitolava Officina ferrarese e in quel testo si comprende quanto il pensiero degli artisti sia sempre fuso a un industrioso mestiere, a una sapienza materiale.
La materia principale resta comunque quella cromatica, le polveri, le cosiddette terre, vengono al solito chiamate ‘materie prime’ come certi numeri indivisibili, ma provengono talvolta da luoghi remoti del mondo e hanno molta storia alle spalle e vite precedenti. Si può dire che in origine appartenessero a tutti e tre i regni del nostro pianeta: regno vegetale, regno animale e regno minerale si danno appuntamento nei contenitori farinosi dell’atelier.
Vi sono colori che per tradizione millenaria derivano dalle piante, dalla loro essicazione o da processi di carbonizzazione, altri vengono estratti da componenti animali, come vesciche od ossa e molti pigmenti sono scavati dal sottosuolo, dalle viscere della terra, dalla macinazione di pietre, oppure da processi di ossidazione dei metalli. Questa diramata provenienza ha, di per sé, un carico di senso cosmico ed esistenziale, che viene messo a dimora nei dipinti, nel letargo simbolico che le materie conducono e ci offrono segretamente.
Ma è l’azione della pittura che porta a una trasformazione del pensiero, alla sua incarnazione, come una sublimazione rovesciata che parte dallo stato impalpabile dell’idea e che, cercando un impasto con la materia, ne viene da quella trattenuto, attraverso il gesto della mano che dispone la sostanza cromatica con intenzione e fine, aggiungendo, a quel fluido vitale, ulteriori e aperti significati. L’accordo tra il pensiero e la materia si manifesta maggiormente nel momento in cui il gesto dell’autore dirige lo strumento imponendogli un indirizzo e un certo grado di pressione, una inclinazione e una estensione al suo percorso, lungo quel tratto di strada nel quale il colore entra in contatto con la superficie del dipinto rilasciandone particelle e memoria. Tutto ciò coin- cide, in qualche misura, con l’azione di dare un senso alla forma. Allora le trasparenze o le ottusità della materia saranno soggette a scelte di insistenza o di sospensione, di velocità d’azione o di forza, che restituiranno espressioni diverse su quell’epidermide cromatica in via di gestazione e di sviluppo.
La fusione concreta tra pensiero e sostanza porta al concepimento della pittura e lo stile non è che l’eco o la coerenza dei caratteri individuali di quell’unione, attraverso cui la materia, arricchita e temprata, finisce per rappresentare le vocazioni sentimentali e intellettuali dell’autore. Proprio quando quella particolare superficie pensata si ritrova analoga in altre opere dello stesso autore, allora si parla dello stile e della sua possibile individuazione.
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Vaghezza o puntiglio, rapidità o lentezza, gravità o leggerezza, ritmo o dispersione, opacità o trasparenza, queste ed altre antinomie, che sono proprie sia della mestica che dell’animo umano, danno intonazione individuale al racconto visivo della pittura. Questa premessa, che apparirà di ambito generale, in realtà è stata scritta pensando al lavoro di Giovanni Lombardini, al suo dipingere estremo, senza l’uso dei pennelli, una tecnica che vuole risalire alla sorgente chimica del colore e alla fisica delle materie. Il procedere di Giovanni trova, già nella sua singolarità, gli elementi di una distinzione e i caratteri del suo stile. Il crogiolo nel quale prepara la miscela cromatica è spesso calibrato su forze contrastanti, un patto da stabilire tra solventi e catalizzatori, tra essenze che diluiscono e agenti che solidificano, per riuscire a controllare le proprietà attive di quell’impasto e per condurlo verso la giusta destinazione, verso l’approdo dell’opera.
Si potrebbe giungere a dire che il quadro viene dipinto quando ancora si trova nella conca del crogiolo, la pratica e l’esperienza portano l’autore a immaginarlo già pri- ma di venir depositato sul supporto, senza che si precluda l’epifania dell’imprevisto.
La forza di gravità è amica in questa gestione e si unisce alla scorrevolezza delle superfici scelte da Lombardini, levigate e luminose quanto servono per rispondere alla giusta disposizione e per ottenere la migliore livrea del fluido colorato. Trasparenza e ottusità stipulano un altro armistizio che fa somigliare queste opere a vetrate trafitte dal sole. L’impressione di una irradiazione di luce, interna ai laminati, è suggerita dalla eccezionale saturazione cromatica, che giunge a impensabili timbri, squillanti come trombe, di contro a insondabili profondità delle tinte più oscure.
Quel colore, un attimo dopo essersi depositato, è così sensibile da reagire al soffio dell’autore, fissandosi in forme ora biologiche e ora geometriche. Produce risacche e sovrapposizioni non troppo distanti dagli effetti delle croccanti lacche usate cinque secoli fa da Paolo Veronese o da Tiziano Vecellio. Allora il timbro diventa vitreo come un lago di montagna e davvero incantato, come quando da bambini bastava una cartina di caramella sugli occhi per farci vedere un mondo favoloso.
A volte il precipitare del colore evoca cascate, ampie lamine di caduta che mi hanno fatto pensare al video di Bill Viola, Oceano senza una riva (Ocean without a shore, 2009), nel quale un diaframma d’acqua sancisce la soglia di percezione tra la vita terrena e l’aldilà.
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In altri casi il colore di Giovanni sembra svenire, quasi che il corpo di cui è composto potesse giungere a una perdita dei sensi, a un languore del pigmento o, come scrive Valerio Magrelli sul tema delle lacrime: un minerale sconforto della materia. Altrove manifesta tutta la sua vita e in qualche misura anche la propria alterità. La specchiante e smaltata superficie stabilisce infatti un distacco da noi, dall’osservatore, sicché quella lipotimia pittorica, quel deliquio del colore, sembra svolgersi aldilà di un diaframma temporale, che rende inaccessibile quell’incanto cromatico, offrendolo alla pura contemplazione.
Una distanza che colloca la pittura e le sue forme più atmosferiche, in una dimensione siderale, che è quasi una corrispondenza visiva della musica delle sfere.
Massimo Pulini