La 59^ Biennale di Venezia.

Dalla semplicità della proposta serba agli animali monumentali e iperrealistici collegati agli antichi miti.

Testi a cura di Lara Petricig e David Radovanovic.
Fotografia a cura di David Radovanovic.

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Si intitola The milk of dreams, quindi “Il latte dei sogni” la nuova edizione della Biennale di Venezia inaugurata per la 59^ volta e visitabile fino al 27 novembre ‘22. La curatrice dell’esposizione Cecilia Alemani ha scelto il titolo mentre progettava la mostra a tavolino nel suo appartamento di New York, durante il lockdown della pandemia e pare si sia ispirata al mondo visionario e surrealista del libro di favole di Leonora Carrington che oltre ad artista era pure scrittrice e il Surrealismo diventa il punto di riferimento espositivo. Fatto apposta per includere una larga varietà di tematiche il titolo fa venire in mente anche la scena finale di Nuovomondo di Crialese dove i protagonisti del film immaginano di nuotare in un mare di latte e inquadrati dall’alto sempre più distanti diventano delle piccole sagome astratte nascoste sotto il cappello che indossano. L’immagine appena ricordata - del tutto casuale - permette di introdurre subito il progetto del padiglione serbo sito ai Giardini, uno dei più belli se valutiamo la semplicità della proposta e l’essenzialità comunicativa che non è per niente qualcosa di scontato. Vincitore del concorso del suo Ministero per la partecipazione alla Biennale il prof. di Nuove tecnologie di Belgrado Vladimir Nicolic tratta il suo tema preferito ovvero l’acqua con il progetto Hod sa vodom (Cammino con l’acqua). In realtà in uno dei due video, quello verticale, l’artista si fa riprendere da un drone fermo mentre nuota in una piscina olimpica da ciò deriva la verticalità del video giocato sulle linee rette e sul concetto di dimensione piccola (e astratta) dell’uomo rispetto allo spazio occupato dall’acqua. All’ingresso, sviluppate in larghezza troviamo delle precomposizioni di video messi uno a fianco all’altro per avere una vista panoramica del Mare Adriatico della costa montenegrina con le riprese effettuate con tre telecamere fisse quando all’orizzonte non c’erano imbarcazioni, quindi uno spazio vuoto, blu scuro, profondo, infinito, uno spazio di solo mare.

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L’esposizione si svolge come di consueto nelle due storiche sedi veneziane adiacenti quella dei Giardini e dell’Arsenale, ad apertura “suggestiva” di ciascuna la curatrice ha deciso di esibire delle sculture monumentali che si rifanno all’Oriente africano e alla sua antropologia, premiando le due artiste con un Leone d’Oro 2022. All’Arsenale Brick House il busto ieratico di donna nera in bronzo alto quasi cinque metri di Simone Leigh artista del padiglione americano; mentre ai Giardini l’Elefante soprannaturale di Katarina Fritsch, scelto quando il progetto-Biennale era in fase di ideazione. Inserito nello spazio di apertura del padiglione centrale moltiplicato da specchi, l’elefante diventa il simbolo di una rassegna che coinvolge 213 artisti o in qualche modo dovrebbe rappresentarli. “...Assume le vestigia […] di società matriarcali, alla base della struttura familiare di questa specie” si legge nella didascalia scritta sul muro a spiegazione dell’opera, quindi si presume introduca le artiste donne: ben 191. Si tratta di una vecchia opera realizzata trentacinque anni prima dal calco di un elefante vero e impagliato: l’animale inerte e verniciato assume un aspetto poco eloquente soprattutto perché di sculture di animali ce ne sono state altre prodotte nei decenni a seguire. La tedesca Fritsch è la vincitrice del Leone d’Oro alla carriera ma da una Biennale ci si aspetta un qualcosa di concretamente nuovo, di poter visionare le ultime tendenze, quelle degli ultimi due (o tre) anni. Se gli artisti viventi che vi partecipano superano la metà e le loro proposte corrispondono ad opere realizzate in precedenza la rassegna tende ad essere un’ampia rilettura del passato che diventa il luogo di rifugio.

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Il successivo intervento della Leigh nel padiglione degli Stati Uniti è “l’installazione” Sovereignty costituita da una certo numero di statue monumentali africane in bronzo e in ceramica, tecnicamente belle riportano l’attenzione sul corpo femminile, sono presentate in gruppo quindi come fossero un’installazione: volumetricamente compatte e poste in pura presenza a rivendicare la blackness come matrice culturale alternativa, probabilmente, e ricollegandosi all’interesse per il primitivismo artistico. Un allestire consolatorio per “non dimenticare” la perdurante logica coloniale e imperialista? Il razzismo e i suoi meccanismi di esclusione? Uno sguardo passivo sulla storia (e sulla Biennale n.58).
E ancora inerente alla lunga vicenda della colonizzazione, dedicato alla decolonizzazione algerina (discriminazione e razzismo) c’è lo spazio francese dove sulle note di alcune vecchie canzoni come “Amore vuol dir gelosia…”anni ‘30 di Nilla Pizzi ci si immerge in atmosfere anni ‘60 allietati dallo spettacolo cabarettistico di due professionisti di tango che intervengono nella finzione di un set-cinematografico tutto predisposto con la rivisitazione di alcune coproduzioni filmiche realizzate tra Algeria, Francia e Italia.

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Ma tornando agli animali monumentali il discorso si fa interessante e più aderente alla tematica espositiva del corpo, nel risultato di trasformazione estetica operata su due cavalli che va ben al di là del “soprannaturale”della Fritsch, potendo giungere (anche involontariamente) alla simulazione di una performance. Osserviamo molto da vicino la donna-cavallo distesa sul fieno realizzata da Uffe Isolotto nel padiglione danese e nella stanza accanto il suo compagno solennemente impiccato al soffitto prendendo pure in prestito da Cattelan l’idea dell’animale impagliato e appeso; il risultato finale si mantiene straniante (non per la tragicità della storia rappresentata) fino al momento in cui il visitatore razionalizza che non possono essere delle creature vere perchè i centauri sono esseri mitologici. Una scultura emozionalmente toccante che trattiene a lungo il visitatore sull’osservazione coinvolto dall’insolito forte iperrealismo. Tecnicamente richiama un’altra scultura, quella della donna dai capelli ramati in camicia da notte bianca nel padiglione Venezia. Creazione perfetta frutto di ultimissime tecnologie messe a punto dal gruppo Ophicina e dallo scenografo trevisano Paolo Fantin: una sorta di “scannerizzazione” di una ragazza vera in carne ed ossa. L’installazione si chiama “Alloro” e percorre la metamorfosi del corpo femminile che si decompone nella madre terra prima di trasformarsi in un ramo di alloro: questa volta è il mito rivisitato di Dafne e Apollo.
Le sculture iperrealistiche nella Biennale si riallacciano storicamente ciascuna a un mito greco. L’artista indiana Mrinalini Mukherjee unisce la tradizione artigianale con il design contemporaneo intrecciando con la tecnica macramé voluttuose grandi dee della fecondità fatte di fibre di canapa viola e gialle.

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Anche la videomaker Loukia Alavanou, in rappresentanza della Grecia si ispira a un mito, quello di Edipo re con un nuovissimo cortometraggio in VR (realtà virtuale) di 15 minuti. Lo spettatore lo guarda seduto su una delle quindici apposite postazioni, entrando dapprima in una gabbia con dei gracchianti avvoltoi che consumano il loro pasto e poi, come fosse un drone, sorvolando il campo rom di Nea Zoia a ovest di Atene con la possibilità di vivere vertiginosamente l’intero scenario tutto attorno aiutandosi con i movimenti della testa e della sedia. La regista ci fa entrare nell’intimità delle baracche registrando sul posto il sonoro in un sofisticato sound design. Da non sottovalutare il suo lavoro di preparazione alle riprese; di accettazione e sensibilizzazione dei rom nel divenire attori della docufiction e infine ne sfrutta il grottesco e la teatralità della recita sommandoli nel montaggio a simboli come la stella della Mercedes, i Rolex e la passione per l’oro che convenzionalmente la nostra società attribuisce alla popolazione zingara. Nei contenuti fa emergere alcune problematiche legate al loro vivere nella baraccopoli privi di cittadinanza e a cui le autorità greche impediscono la scelta di un luogo di sepoltura, un po’ come il problema del vecchio Edipo nel mito di Sofocle.
Molti progetti tendono ad ancorarsi al passato guardando sia alla storia che al mito. Si intitola Sirens (2019-2020) il cortometraggio della fotografa Nan Goldin, alludendo al canto magico delle sirene mitologiche che attiravano i marinai verso le coste conducendoli alla morte; nel video esse diventano la metafora di quanto succede con gli stupefacenti, omaggiando Donyale Luna top model afroamericana e musa di Andy Warhol, morta di overdose. Il video non nasce da delle riprese realizzate dalla nota fotografa bensì dalla selezione di una trentina di film di registi di un certo calibro da cui sono state scelte alcune scene di ballo: il montaggio di brevi clip ad effetto glamour mostra i corpi che si muovono attraversati da allucinazioni e alterati da sostanze stupefacenti.