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Nel segno della Musa. Le interviste di Marilena Spataro.

“Ritratti d’artista”
Protagonisti del XXI secolo.
Lorenzo Tugnoli
Pluripremiato fotoreporter di fama internazionale. Romagnolo, classe 1979. Apprezzato per i suoi scatti anche in ambito artistico. Ad oggi unico italiano ad aver vinto, nel 2019, il Premio Pulitzer per la Fotografia (Feature Photography). Cui si sono aggiunti: World Press Photo nel 2019 (categoria General news), nel 2020 (categoria Contemporary issues) e il primo premio in “Spot news” (categoria Storie) nel concorso fotografico: “World press photo 2021” per il suo foto-racconto “Port Explosion in Beirut” sulla tragica esplosione al porto di Beirut.

I suoi scatti sono molto apprezzati sia nel reportage giornalistico che artisticamente parlando. Come convivono nel suo lavoro queste due anime, del fotoreporter che racconta la realtà e dell’artista che cerca la bellezza e la perfezione?
«Il mio lavoro parte dal racconto degli eventi politici in alcuni paesi del Medio Oriente e dell’Asia centrale, il mio interesse è quello di costruire una narrazione basata sulla grammatica visiva del fotogiornalismo. è chiaro che il processo di produzione delle immagini richiede attenzione dal punto di vista formale. Come tutti gli altri fotografi dedico molte delle mie energie allo studio della luce e dell’inquadratura. Con il tempo ho sviluppato la mia sensibilità visiva ma sono ancora molto attratto dall’ambiguità intrinseca delle immagini fotografiche. Personalmente penso di essere, più che un artista, un buon artigiano che ha imparato a costruire e a confezionare immagini che possano raccontare determinate situazioni. Sicuramente il linguaggio a cui attingo maggiormente è quello della fotografia di reportage anche se sono molto affascinato dalla fotografia d’arte».
BEIRUT, LEBANON - AUGUST 8:Protesters clashes with security forces in central Beirut during a demonstration against the government.After the incident anger has grown among Lebanese citizen toward the establishment. Officials and experts involved in investigating the explosion suggest that neglect, ignorance and stifling bureaucracy played a major part in the tragedy. (Photo by Lorenzo Tugnoli/ Contrasto for The Washington Post)









Lei è romagnolo, figlio di una terra orgogliosamente laica improntata a sentimenti ed ideali di giustizia sociale e libertà. Valori, mi risulta, ampiamente condivisi dalla sua stessa famiglia. Quanto avere respirato fin da piccolo quest’atmosfera, ha contribuito a farle intraprendere la strada del fotoreporter in zone di crisi, di guerra e comunque di povertà, situazioni, insomma, che da sempre reclamano giustizia?

«Sono nato in Romagna e la casa in cui sono cresciuto è sempre stata piena di libri, tra cui quelli dei grandi maestri della fotografia. La mia passione per la fotografia è diventata più forte mentre studiavo all’università di Bologna, dove ho iniziato a fotografare le manifestazioni di piazza negli anni 2000: le manifestazioni contro la guerra in Iraq e il movimento studentesco di quegli anni. In seguito è nata la curiosità di vedere di persona alcuni paesi del Medio Oriente, luoghi che vedevo nei giornali e che erano al centro degli eventi storici di quel periodo. All’inizio c’era un interesse che scaturiva dalla militanza politica ma poi questo ha lasciato strada alla curiosità di scoprire e raccontare i luoghi che esploravo nei miei viaggi. All’inizio viaggiavo cercando di sviluppare delle storie e poi di venderle ai giornali. Ho anche fatto un tirocinio all’archivio dell’agenzia Magnum a New York. Lì mi sono avvicinato ad alcuni fotografi, ho visto come lavorano i grandi maestri e ho conosciuto alcuni editor di grossi giornali. Da quel momento in poi la mia carriera è rimasta vicina al giornalismo statunitense e tuttora lavoro soprattutto per il Washington Post».
C’è qualche figura del passato che l’ha influenzata nel suo lavoro?
«Siccome a casa mia circolavano molti libri, ovviamente anche di fotografia, ho avuto modo di studiare i maestri del passato e del presente. Partendo dai grandi classici come Bresson e Salgado. Al tempo ero molto affascinato in particolare da una serie di autori che hanno lavorato in bianco e nero negli anni ‘90 e hanno coperto i grandi eventi del tempo: la guerra in ex Jugoslavia, la seconda intifada, ecc... Maestri come Paolo Pellegrin, Gilles Peress o James Nachtwey. Queste immagini hanno sicuramente contribuito a formare il nucleo della mia fotografia poi ovviamente il mio gusto si è evoluto e mi sono interessato anche ad altri autori».
BEIRUT, LEBANON - AUGUST 4:Firefighters work to put out the fires that engulfed the warehouses in the port of Beirut after the explosion. (Photo by Lorenzo Tugnoli/ Contrasto for The Washington Post)









Nel 2019, ha ricevuto, unico italiano, il prestigiosissimo Premio Pulitzer per la sezione Best feature photography, assegnatole grazie al suo reportage dallo Yemen, realizzato per il Washington Post nel 2018. A seguire il World Press Photo nel 2019 (categoria General news), nel 2020 (categoria Contemporary issues) e il primo premio in “Spot news” (categoria Storie) nel concorso fotografico “World press photo 2021” per il suo foto-racconto “Port Explosion in Beirut” sulla tragica esplosione al porto di Beirut. Come ha vissuto umanamente, oltre che professionalmente, questi riconoscimenti, a partire dal Pulitzer. Ci parla di quel servizio sullo Yemen?

«Il lavoro premiato sullo Yemen è relativo a una storia che ho fatto nel 2018. In quell’anno ho fatto due viaggi nel paese insieme a Sudarsan Raghavan, il caporedattore del Cairo per il Washington Post. In tutto siamo stati più di due mesi, quindi un periodo di tempo abbastanza lungo per gli standard del giornalismo. Il giornale ha investito moltissime energie in quella storia, e questo è stato molto importante soprattutto perché al tempo non c’erano molti giornali interessati a coprirla. Il fatto di spendere un certo tempo nel paese ci ha dato la possibilità di realizzare un lavoro molto vasto. Abbiamo viaggiato in varie parti del paese, sia nelle zone controllate dal governo che in quelle in mano ai ribelli Houthi. Il nostro lavoro si è focalizzato soprattutto sulla crisi umanitaria scaturita dalla guerra.
Quanto alla mia reazione alla notizia del Pulitzer, all’inizio non ho mostrato molto entusiasmo, il che ha anche un po’ sorpreso la mia editor americana quando mi ha chiamato per dirmelo. Non mi ero reso conto dell’importanza del premio. In quanto europeo tendevo a prestare più attenzione a premi come il World Press Photo. Il Pulitzer è un riconoscimento legato soprattutto ai media americani e io sono l’unico italiano ad averlo ricevuto perché lavoro molto con questo mercato. Si tratta di un premio che viene conferito parimenti al giornalista ed al giornale quindi ha inciso molto positivamente nel mio rapporto con il Washington Post. Ora, sono più libero di scegliere le storie che voglio raccontare, e posso prendere più tempo per realizzarli».
TAIZ, YEMEN - NOVEMBER 26th, 2018:A militiaman stands in a frontline position in the area called al-Zunuj on the northern front of Taiz.The frontline that encircle the city has not moved significantly in the past two years. Humanitarian aid and supplies can be delivered into the city only through a single road still under the control of the coalition.Photo by Lorenzo Tugnoli/ The Washington Post/ Contrasto









C’è un’occasione in cui svolgendo il suo lavoro ha sentito la vita in pericolo?

«Lavorando come fotogiornalista passo molto tempo a pianificare le storie e i viaggi, soprattutto, in modo da affrontare le situazioni potenzialmente pericolose con prudenza e con cognizione di causa. Cerco di raccogliere informazioni sulla sicurezza nell’area in cui viaggerò, e sulle persone che voglio incontrare. è importante fare un calcolo tra i rischi che si corrono in una certa situazione e le immagini che è possibile realizzare, cercare di capire quanto si sta rischiando e per quale motivo. Infine è molto importante fare in modo che i giornalisti locali con cui collaboro non corrano rischi.
All’inizio ho cominciato a lavorare in zone meno pericolose come la Palestina e poi sono gradualmente passato a zone più difficili come l’Afghanistan. Ma in genere non ho passato molto tempo in prima linea perché sono sempre stato molto più interessato alle cause e alle conseguenze dei conflitti».
Parlando della sua conoscenza del mondo arabo, questa è ampiamente confermata da moltissime foto che testimoniano con grande delicatezza e poesia la società e i popoli di civiltà islamica o, comunque, di realtà molto diverse dalla nostra. Il che, spesso, mette in discussione parecchi degli stereotipi divulgati dalla maggior parte dei media. Quale il suo rapporto con quel mondo che lei documenta?
«Da quando ho iniziato la mia carriera di fotoreporter, per una serie di motivi, mi sono sempre trovato a vivere nei paesi che fotografavo. Ho passato cinque anni a Kabul e ora sono a Beirut. La decisione di trasferirmi è stata motivata dal mio interesse per il paese ma anche dalla maggior facilità di prendere lavori per i giornali se ci si trova già in un luogo. Dal 2015 vivo in Libano, un paese che in qualche modo è diventato la mia seconda casa perché è dove mi sono sposato e dove risiede la mia nuova famiglia.
Il mio fascino per il Medio Oriente risale all’inizio della mia carriera. I primi viaggi li ho fatti appunto in Libano e in Palestina. Da lì sono tornato tante volte. Non c’è dubbio che il modo di guardare certi paesi da parte di noi occidentali sia filtrato da una serie di pregiudizi. Penso che il fatto di passare un po’ di tempo nei paesi che voglio raccontare possa aiutarmi a elaborare il mio modo di vedere un certo luogo. Spesso in me ci sono dei pregiudizi visivi che sono molto difficili da superare. In questo caso sto parlando di modi di vedere e rappresentare un certo luogo che sono ricorrenti nel fotogiornalismo e che è molto difficile superare».
AZZAN, YEMEN - MAY 22nd, 2018:A veiled woman begs outside a grocery store in the village of Azzan.The village of Azzan was under the control of Al-Qaeda until the Shabwani elite forces liberated the area in December 2017. This armed group is aligned with a coalition led by Saudi Arabia and the UAE and is operating in the area in the fight against Al-Qaeda.Over the past year, the shadow war between al-Qaeda and local Yemeni fighters has intensified, largely out of sight and out of the headlines. While much attention has been paid to a separate Yemeni civil war pitting northern rebels against the internationally recognised government, the battle being waged by U.S.-backed Yemeni forces against al-Qaeda militants has escalated.But while the militants have been expelled from some of their strongholds, Yemeni fighters combating the group in the hinterlands of Shabwa and Abyan provinces acknowledge that their recent gains against al-Qaeda are precarious.Photo by Lorenzo Tugnoli/ The Washington Post/ Contrasto









Se l’aspettava tutto il successo di oggi quando ha iniziato la sua carriera?

«Questi riconoscimenti sono certamente gratificanti dal punto di vista personale e professionale. Ma ancora più importante dei premi sono le collaborazioni che ho costruito nel tempo con una serie di realtà come il Washington Post in America o Contrasto, la mia agenzia italiana. Questi sono interlocutori molto importanti che sostengono il mio lavoro e mi aiutano a migliorarmi e penso che questa sia la cosa che conta di più. I premi sono importanti ma arrivano e passano, quello che invece rimane è il rapporto di stima e di fiducia con le persone con cui si riesce a sviluppare una collaborazione più a lungo termine».
Quali gli scatti che ama di più?
«I lavori che ho fatto negli ultimi anni sono stati molto importanti per la mia carriera, come quello sullo Yemen che è stato premiato dal Premio Pulitzer. Sono molto legato al mio lavoro in Afghanistan, un paese in cui ho viaggiato per la prima volta nel 2009 e dove ho vissuto per cinque anni. E ovviamente sono molto importanti per me le immagini che ho fatto recentemente dopo l’esplosione del porto di Beirut, perché sono foto che ho fatto nella città dove vivo. Il 4 agosto è stato un giorno che ha cambiato molte cose in Libano ed è stato visto da molti libanesi come un altro fallimento dello stato. La mia storia sull’esplosione del porto di Beirut è stata premiata al primo posto nella categoria Spot News Stories del World Press Photo. La mia speranza è che questo premio contribuisca a fare in modo che questa tragedia non venga dimenticata.».
Cosa significa essere fotogiornalista in un’epoca come la nostra, dove l’attenzione é sempre di più rivolta alla spettacolarizzazione della notizia e dove la manipolazione tende a prevalere sulla verità?
ADEN, YEMEN - MAY 20th, 2018:A tent of in the IDP camp in Mishgafa, north of Aden. Refugee camps have sprung up across Yemen adding pressure on western aid agencies and hospitals while worsening a humanitarian crisis that’s already considered the most severe in the world. Most are running away from clashes near the strategic port city of Hodeida, controlled by northern rebels but now facing a siege by Yemeni forces aligned with a U.S.-backed coalition, led by Saudi Arabia and the United Arab Emirates. Photo by Lorenzo Tugnoli/ The Washington Post/ Contrasto









«Sicuramente il modo di fare giornalismo e comunicazione sta cambiando. Molti di noi ricevono la maggior parte delle notizie dai social media o arrivano ai giornali tramite i social. Il ruolo dei giornali e delle agenzie di stampa è quindi ancora più importante perché sono le entità che hanno prestigio e credibilità, che in teoria controllano l’accuratezza delle notizie prima di pubblicarle. E questo porta anche al ruolo dei giornalisti e dei fotogiornalisti, che in teoria dovrebbero avere un’etica professionale e quindi essere più credibili di chi produce citizen journalism. La differenza fra un manifestante con un telefono e le immagini di un fotogiornalista non dovrebbero essere diverse soltanto da un punto di vista qualitativo ma anche dell’accuratezza con cui vengono contestualizzate durante la pubblicazione.».
Quali i suoi progetti e i suoi sogni per il futuro. Pensa di tornare a lavorare in Italia?
«Voglio continuare a lavorare su alcune tematiche su cui mi sono concentrato negli ultimi anni. Continuerò sicuramente a seguire l’Afghanistan. Questo è un paese su cui lavoro da molto tempo e al momento sta vivendo un periodo particolare quindi sento la necessità di continuare a seguirlo da vicino.
Continuerò, ovviamente, a seguire il Libano che considero la mia terra di adozione. In Italia, virus permettendo, torne- rò spesso, mi auguro come prima, per visitare amici e famigliari ma anche per organizzare una serie di mostre che ho in programma per i prossimi anni. Per il resto la mia vita è in Libano dove mi sono trasferito nel 2015. Non credo ritornerò a vivere in Italia almeno per ora».