Il Cammino Dell'uomo tra Arte e Fede
La Parola ha bisogno della figura. Quando muta il codice semantico, quando si passa dalla enunciazione orale a scritta alla sua rappresentazione, la figura diventa necessaria. Questa vale per la pubblicità, per la politica e vale, ovviamente, per la religione. Ed eccoci al cuore del problema, alla “vexata quaestio” dell'arte sacra. Dirò subito che a me non piace il binomio “arte sacra”. Quando stupisce di fronte al miracolo del Vero visibile, quando si pone di fronte ai supremi interrogativi della vita, della morte, dell'altrove, quando si accosta all'immenso enigma dell’animo umano, l’arte è sacra, è “naturaliter” religiosa. Queste cose non le dico io. Le ha dette, in documenti ufficiali del Magistero, quel grande intellettuale del Novecento che e stato Papa Paolo VI Montini.
La questione dunque va posta in altri termini. Quello che a me interessa è la specificità e la funzionalità dei codici figurativi quando sono chiamati a significare e a rappresentare, nel tempo presente, i valori, i messaggi, i fatti, le persone, in definitiva l’identità e la storia di una religione che per noi e quella romano-cattolica.
Abbiamo detto che la figura è sempre e comunque irrinunciabile. Lo è in modo speciale in una religione come la nostra che si fonda sulla “Incarnazione”, sullo Spirito che si fa carne, corpo, ossa, sul messaggio che diventa storia di uomini e di donne, e quindi accadimenti, incontri, miracoli, prodigi, parabole.
Il fatto è che l’artista contemporaneo chiamato a dipingere o a scolpire un “fatto” delle Scritture, sa che tutto è gia stato messo in figura, che le immagini accumulate dalla storia dell’arte lo sovrastano, lo circondano, in certo senso lo opprimono. Uno dice “Deposizione nel Sepolcro” e subito vengono in mente Caravaggio, van der Weyden, Rembrandt. Dice “Crocefissione” ed ecco emergere Masaccio, Velazquez, Dalì.
Dice “David” ed ecco Donatello, Verrocchio, Michelangelo, Bernini, affollare di idee e di modelli ogni incipiente facoltà creativa.
Tutto questa pone un problema delicato, di soluzione non facile. Utilizzare i materiali figurativi della tradizione rielaborandoli, trasfigurandoli, rendendoli efficaci per le culture e le sensibilita di oggi, è possibile. A patto di non cadere nel citazionismo che è sterile e sgradevole sempre. A patto di non scivolare nell’intellettualismo evanescente, criptico, disincarnato, scenario altrettanto infausto.
Bisognerebbe sapere usare la tradizione figurativa con la stessa naturalezza con cui usiamo la lingua letteraria; uno strumento di comunicazione sappiamo bene essere stato costruito da Dante e da Petrarca, da Bembo e da Manzoni, da Leopardi e da Gadda e che tuttavia ci serve per esprimere idee e valori, sentimenti e passioni del nostro tempo. A considerazioni di questo genere sembra ispirarsi la mostra che Vincenzo Nobile e mons. Marco Viola hanno curato e che l’architetto Rosanna De Benedictis ha allestito in San Lorenzo.
Sono presenti nella rassegna che sta sotto l’impegnativa epigrafe di “II Cammino dell’Uomo fra arte e fede” autori di consolidata fama, ormai icone del Novecento, come Giovanni Michelucci, Ugo Guidi, Igor Mitoraj, Novello Finotti; altri meno noti, altri ancora che sono da considerare giovani promettenti testimonianze nel vasto tumultuoso scenario della Contemporaneità.
Tutti utilizzano la figura, la elaborano, la contaminano, la manomettono. In tutti vive la memoria della figuratività storica nella viva consapevolezza tuttavia della impossibilità di una sua letterale ripro- posta.
Viviamo in tempi di dissoluzione dei linguaggi espressivi, l'arte non ha più un suo statuto da tutti accettato e riconosciuto. Nella terra desolata della contemporaneità, è arduo dare immagine a valori antichi ma ancora ben vivi nella coscienza nei sentimenti e nell'immaginario poetico.
Ci si può riuscire attraversando la porta stretta della semplificazione, della “ridutio ad minimum”, puntando a fare emergere, attraverso la figura, il cuore essenziale del messaggio.
Questo, solo questo, è il percorso che può permetterci di scoprire le pepite d’oro della qualità e della originalità espressive. A me sembra che questa mostra abbia materiali e argomenti per dimostrarcelo.
Antonio Paolucci
La questione dunque va posta in altri termini. Quello che a me interessa è la specificità e la funzionalità dei codici figurativi quando sono chiamati a significare e a rappresentare, nel tempo presente, i valori, i messaggi, i fatti, le persone, in definitiva l’identità e la storia di una religione che per noi e quella romano-cattolica.
Abbiamo detto che la figura è sempre e comunque irrinunciabile. Lo è in modo speciale in una religione come la nostra che si fonda sulla “Incarnazione”, sullo Spirito che si fa carne, corpo, ossa, sul messaggio che diventa storia di uomini e di donne, e quindi accadimenti, incontri, miracoli, prodigi, parabole.
Il fatto è che l’artista contemporaneo chiamato a dipingere o a scolpire un “fatto” delle Scritture, sa che tutto è gia stato messo in figura, che le immagini accumulate dalla storia dell’arte lo sovrastano, lo circondano, in certo senso lo opprimono. Uno dice “Deposizione nel Sepolcro” e subito vengono in mente Caravaggio, van der Weyden, Rembrandt. Dice “Crocefissione” ed ecco emergere Masaccio, Velazquez, Dalì.
Dice “David” ed ecco Donatello, Verrocchio, Michelangelo, Bernini, affollare di idee e di modelli ogni incipiente facoltà creativa.
Tutto questa pone un problema delicato, di soluzione non facile. Utilizzare i materiali figurativi della tradizione rielaborandoli, trasfigurandoli, rendendoli efficaci per le culture e le sensibilita di oggi, è possibile. A patto di non cadere nel citazionismo che è sterile e sgradevole sempre. A patto di non scivolare nell’intellettualismo evanescente, criptico, disincarnato, scenario altrettanto infausto.
Bisognerebbe sapere usare la tradizione figurativa con la stessa naturalezza con cui usiamo la lingua letteraria; uno strumento di comunicazione sappiamo bene essere stato costruito da Dante e da Petrarca, da Bembo e da Manzoni, da Leopardi e da Gadda e che tuttavia ci serve per esprimere idee e valori, sentimenti e passioni del nostro tempo. A considerazioni di questo genere sembra ispirarsi la mostra che Vincenzo Nobile e mons. Marco Viola hanno curato e che l’architetto Rosanna De Benedictis ha allestito in San Lorenzo.
Sono presenti nella rassegna che sta sotto l’impegnativa epigrafe di “II Cammino dell’Uomo fra arte e fede” autori di consolidata fama, ormai icone del Novecento, come Giovanni Michelucci, Ugo Guidi, Igor Mitoraj, Novello Finotti; altri meno noti, altri ancora che sono da considerare giovani promettenti testimonianze nel vasto tumultuoso scenario della Contemporaneità.
Tutti utilizzano la figura, la elaborano, la contaminano, la manomettono. In tutti vive la memoria della figuratività storica nella viva consapevolezza tuttavia della impossibilità di una sua letterale ripro- posta.
Viviamo in tempi di dissoluzione dei linguaggi espressivi, l'arte non ha più un suo statuto da tutti accettato e riconosciuto. Nella terra desolata della contemporaneità, è arduo dare immagine a valori antichi ma ancora ben vivi nella coscienza nei sentimenti e nell'immaginario poetico.
Ci si può riuscire attraversando la porta stretta della semplificazione, della “ridutio ad minimum”, puntando a fare emergere, attraverso la figura, il cuore essenziale del messaggio.
Questo, solo questo, è il percorso che può permetterci di scoprire le pepite d’oro della qualità e della originalità espressive. A me sembra che questa mostra abbia materiali e argomenti per dimostrarcelo.
Antonio Paolucci
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