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Il canto di Natale fra cinema e pittura.

Nel 2015 Terra d’arte dedicò a “pittura per un suono povero” una prima mostra, allestita in Assisi, all’interno del festival di Assisi Suono Sacro. La seconda mostra, Pittura per un suono povero. Natale 2016, si è tenuta dal 4 al 6 gennaio scorso a Roma, all’interno del convegno “Il canto di Natale fra cinema e pittura”, curato stavolta con Svjetlana Lipanović dell’Associazione Italo-Croata di Roma. La storia di quest’ultima realtà associativa si lega a due grandi figure della cristianità, San Francesco e San Girolamo, e principalmente a due e-venti: il Natale e la guerra. La sua prima azione, “Dacci una mano anche tu”, si svolse nel Natale 1993, dedicata alla raccolta di beni per bambini vittime di guerra in Croazia. Fu promossa dal mons. Anton Benvin, rettore del Collegio di San Girolamo, e supportata dalle Suore della Congregazione Scolastica Francescana di Christo Re di Roma. Da parte sua Terra d’arte strin-ge insieme questi elementi con le conseguenze del Manifesto per una fi- losofia dell’inter-cultura e del Manifesto per un suono povero: ovvero col progetto “Pittura per un suono povero”. Nella cittadella di San Francesco, si trattò di riconoscere nella singolare messa in opera di ciascun artista il richiamo reciproco di visibile ed invisibile, dove il visibile non si esaurisce nella rappresentazione di un oggetto, e dove l’invisibile non è un misterioso significato che sta dietro la rappresentazione. Per riprendere una felice immagine di Turi Sottile, si tratta di «migrare al di là del visibile», nella speranza d’ottenere occhi nuovi capaci di percepirne il mistero. Oggi, nella città eterna, siamo quanto mai convinti che con “pittura per un suono povero” sia possibile raccogliere opere, e raccogliersi attorno ad opere di artisti che nel loro trattamento della materia sono in grado di far vedere chiaramente il soggettivo, non come sforzo diretto alla elaborazione d’un sistema di concetti universali, bensì come singolarità ogni volta intrecciata in una trama di amicizie, di comunioni, che desta ammirazione. Questa la sua promessa estetica: non lo spettacolo per amatori d’arte, ma uno scampo dall’isolamento, una realtà liberata dal peso dell’autoaffermazione.
Ciò premesso, il discorso sulla mostra e sul convegno si sviluppa ora attraverso due distinte parti. La prima, I bordi e il colore, a firma di Michele Bianchi. La seconda, Le opere e il reale, è un excursus tra le opere in mostra a firma di Stefano Valente parte 1 (M. Bianchi) I bordi e il colore
cinema 1 Joyeux Noel
Il film Joyeux Noël di Christian Carion rivisita un momento della Grande Guerra, la tregua di Natale del 1914, rubandolo alla Storia e rendendocelo vero. Centodue anni dopo, ed eccoci qui, è lo stesso Natale di allora questo nostro del 2016, solo siamo passati dalla Prima alla Terza Guerra Mondiale, a dire di Papa Francesco. Crisi economica, disorientamento esistenziale, geografia dagli incerti confini, territorializzazioni della violenza religiosa, esaltazione per la fine della politica. Sembra tutto diverso, sembra passato un secolo appunto. L’utopia si è spenta, sia a destra che a sinistra.     Questa stessa distinzione sfuma. Perché si tratterebbe allora dello stesso “Natale”? L’occidente, e innanzitutto l’Europa assiste impotente oggi più di allora, non ha linguaggio, non ha iniziativa politica. È povero, sì, ma non in spirito, come allora. È solo afasico, misero, senza spirito, infiacchito, stupefatto, ironico, come allora. La povertà del poverello d’Assisi, a cui il papa ha rubato il nome, è invece una energia che dura, un fuoco che non si consuma, come sempre. Non certo una sublimazione, non certo un lampo, né un trofeo da esibire, come ora, come allora. Non è il rovescio facile d’una disperazione irrisolta di fondo, ora come allora. È un volo ad occhi chiusi, non una passeggiata da voyeur, per voyeur. Cent’anni fa, in modo imprevedibile, i soldati degli opposti schieramenti disobbediscono agli ordini ufficiali che non prevedono stop alle ostilità. Nessuno sa dire come sia possibile. Non se ne comprende il gesto, l’inizio. La potenza di unificazione ricompare nella vita degli uomini e le opposizioni vitali, rinsecchite dall’ideologia nazionalista che porta alla guerra, riacquistano linfa. Il film fa vedere questo impossibile con una reticenza bellissima. Vola il film a occhi chiusi, a bocca cucita, sulle righe delle trincee l’un contro l’altra armata; il film e non l’occhio, è ciò che disfa le trincee nell’attimo stesso in cui si stacca da terra. E non è la cinepresa, né la sceneggiatura del film. È il suo colore stesso, che vediamo chiaro sullo schermo; il colore del film, non un segno escogitato da un regista al fine di mettere in luce una realtà, alla fine sempre possibile. No. È il colore invece dell’impossibile, dell’impossibile innanzitutto allo stesso film come prodotto delle mani dell’uomo, l’impossibile di un comando di tregua che non viene da nessuno. In tal senso questo film è cinema del colore, più che della luce, e lascia indecisi del suo autore, non si pronuncia sul suo talento. Bisognerebbe, qui, ripensare la fotografia come tale, in rapporto al cinema o per se stessa, se non dovessimo ora, subito, passare all’altra domanda scritturale più urgente per noi. E la pittura? La pittura copia la realtà? La evoca, almeno, come il film evocherebbe un frammento di Storia, invece di scucirglielo di dosso? Pier Paolo Pasolini nel saggio su La fine dell’avanguardia del 1966 aveva osservato che il cinema è «una lingua che costringe ad allargare la nozione di lingua. Non è un sistema simbolico, arbitrario e convenzionale.
Davor Vukovic 2 arcipelago 2017 Michele Giacinto Bianchi
Non possiede una tastiera artificiale su cui suonare i segni come campanelli di Pavlov: segni che evocano realtà, come appunto un campanello evoca al topolino il formaggio e gli fa venire l’acquolina in bocca». Quindi il cinema non copia la realtà, ma la esprime, con la realtà stessa. È simbolo della realtà, però non simbolo convenzionale, cioè non è un costrutto umano, ma qualcosa che simbolizza la realtà a partire dall’alto. Da dove? Non da nessun luogo, solo da dove l’uomo non può arrivare con nessun razzo. Il cinema, visto dal basso è simbolo dell’alto, visto dall’alto è simbolo del- l’uomo. Proprio come la pittura di colore. La pittura si fa con la luce, o col colore? Laura Pogosyan e Umberto Ippoliti hanno visto questo: la prima ha visto che solo la pittura è in grado di «bordare non la forma delle cose ma la loro assenza, il loro ritrarsi dal mondo delle presenze indiscrete»; il secondo ha visto che «il processo artistico strappa qualcosa alla realtà che mi circonda, sicché in ogni immagine che si produce sotto le mie mani qualcosa del mondo sembra sparire, senza per questo annientarsi, come succede in un sogno degno di questo nome». Della luce resta ogni volta il colore, qualcosa di essenzialmente refrattario che non necessita d’illuminazione, e la realtà dei bordi il confine si percepisce chiaramente senza alcun ricorso alla luce. Il colore restituisce questa simbolica non convenzionale. Il colore in pittura è come il movimento del film e, come vede il cineocchio di Ippoliti, anche del sogno. Il colore in pittura è qualcosa che non si costruisce soggettivamente, muovendosi come una coscienza in uno spazio-tempo. Per questo tale movimento non può essere modificato né migliorato, quando si sogna, quando si è al cinema. Perciò nei sogni in cui c’è un ostacolo da superare, uno spazio sia pur breve da attraversare, non si riesce mai a farlo. Ma non c’è conflitto, il relax è metafisico. Come prova, a cavallo tra le due guerre mondiali, la migliore filmografia surrealista, se il film riesce esso ci persuade che, senza sforzo alcuno, tutto si può superare col nostro amen.
Laura Pogosyan particolare e Ivana Jovanovic Trostmann particolare 1 2017 Michele Giacinto Bianchi
parte 2 (S. Valente)
Le opere e il reale
Emiliano Yuri Paolini presenta un esemplare della serie COSE & NONCOSE. Sulla tela è rappresentata una comune caffettiera accompagnata dalla scritta “caffettiera”. Lungi dal mettere in questione il regime della rappresentazione qui l’artista sembra addirittura raddoppiare la rappresentazione, ma proprio raddoppiandola riesce inaspettatamente a sorprenderci: “Ma questo è proprio quella caffettiera che dice di essere?”. É questo effetto di straniamento iniziale che porta colui che guarda la rappresentazione a non oltrepassare la rappresentazione verso l’oggetto rappresentato, ma a concentrarsi sulla rappresentazione stessa e sulla sua qualità pittorica. Queste cose di Paolini, poi, sono cose che non si accampano su di uno sfondo fosse anche l’orizzonte del cielo. Non c’è un comune orizzonte che abbracci queste cose ricomprendendole e quindi dando loro unità e senso. Il cielo è ormai caduto in pezzi, l’orizzonte è ormai spezzato in frammenti incapaci di riflettere il tutto  queste cose restano sparpagliate, abbandonate, irredente, gettate a terra come scarti, come resti, come avanzi... in ciò sta tutta la loro povertà. Con “I Testimoni” di Diego Petruzzi, ci troviamo di fronte a delle strane sculture che in quanto sprovviste di piedistallo ci si presentano come coricare o accasciate su di un lato. L’impressione è quella di stare di fronte a delle sopravvivenze archeologiche di un tempo immemorabile che comunque ha lasciato traccia di sé sotto forma di stratificazioni geologiche. Anche queste sculture, per così dire minorate dalla carta abrasiva del tempo che ha cancellato rendendo illeggibili le scritte sulla loro ‘pelle’, sono oggetti abbandonati, spersi, indecifrabili, resti, tracce che hanno la natura di rovine incomprensibili e mute. Cose abbandonare a se stesse senza rinvenibile motivo che in tutto il loro nonsenso sembrano evocare voci lontane, echi di suoni... Qui c’è materiale sufficiente per iscrivere questi testimoni (di un tempo ormai esploso e non più rinchiudibile nell’orizzonte di una coscienza) nell’orbita di pittura per un suono povero. Il dipinto di Davor Vuković raffigura senza propriamente rappresentare l’arcipelago di isole che si estendono lungo la costa croata del mar Adriatico. Esse si intravedono.  Queste isole emergono da una serie di tratti che non possiamo definire figurativi. Di primo acchito, infatti, il quadro di Vuković sembra essere una composizione astratta  il riferimento all’arcipelago di isole emerge solo in un secondo momento. Quindi a rigore quest’opera non si può definire né astratta, né figurativa. La figura sembra emergere dall’intrico di colori gettati sulla tela con un esercizio tecnico che sembra dar luogo ad una crasi tra il colorismo magico di uno Chagall ed il colore che cola sulla tela di un Pollock. Tuttavia proprio grazie al particolare uso non rappresentativo del colore il profilo delle isole croate non si impone mai sulla forma ed i colori dell’immagine pittorica. Qui possiamo parlare di una continua oscillazione tra figurazione ed astrazione che non si risolve mai a vantaggio dell’una o a vantaggio dell’altra. Così l’oggetto rappresentato si frantuma in un arcipelago di isole dove il significato della pittura non è più limitato al rispecchia- mento della realtà raffigurata. Laura Pogosyan ha presentato due opere: un autoritratto, e un ritratto di una enigmatica donna, probabilmente anch’essa un riflesso del volto dell’artista. Del primo quadro colpisce non solo l’aria melanconica dell’artista, che si raffigura come abbandonata in un angolo della tela, ma il fatto che ha le mani nascoste dalle braccia intrecciate all’altezza del petto. Questo nascondere la propria mano da parte dell’artista che dipinge sembra un particolare molto significativo: l’artista nasconde la mano, con cui ha impugnato il pennello e ha dipinto, come a dire che non tutto nell’opera è fatto da mani d’uomo. Nel secondo quadro, in primo piano c’è il volto stilizzato di una donna di color verde (probabilmente il volto della stessa pittrice); sullo sfondo una porta dalle due ante aperte attraverso cui filtra una luce fredda ed acida. L’artista connettendo la donna e la casa sembra lavorare pittoricamente sull’idea di intimità. Qui, però, non si tratta di una rappresentazione dell’intimità, bensì si ha a che fare con l’intimità in quanto non tutta riconducibile all’ordine della rappresentazione. Al contrario di Lucio Fontana che taglia la tela nel tentativo di oltrepassarla verso un suo senso o nonsenso metafisico (comunque in un aldilà), il piccolo quadro di Turi Sottile si segnala per il suo incredibile senso della superficie non riducibile solo alla sperimentazione di nuovi ed insoliti supporti. Egli non distanzia la superficie dal suo sguardo per ridurla a supporto di rappresentazione; ma si espone al rischio di una visione ravvicinata nel tentativo di darci una visione perspicua dell’insieme.
Umberto Ippoliti 1 Mother particolare
I colori diventano solo una sottile increspatura della superficie e si presentano giusto il tempo necessario a scomparire per restituirci all’esperienza impossibile di una superficie tesa ma senza spessore. Ivana Jovanović Trostmann partecipa a questa mostra con un quadro che ritrae la persona del Cristo. Il volto del redentore, però, non è rivolto allo spettatore del quadro; Cristo guarda verso la sua destra, ma cosa guarda non lo possiamo dire perché non è rappresentato. É un Cristo che distoglie il suo sguardo. Non è un Cristo che ci guardi direttamente appuntando i suoi occhi misericordiosi come due spilli sulla nostra carne di peccato. Egli non ci guarda. I suoi occhi non incrociano i nostri occhi. Egli sembra voler sfuggire il contrapporsi degli sguardi. Gesù si distrae rispetto all’impianto della rappresentazione.  Egli guarda altro, guarda oltre. I colori del quadro virano dall’indaco all’azzurro al blu, ma sono molto tenui, sono colori che non gridano; sono colori che sembrano restituire all’immagine di Gesù una realtà quasi fantasmatica. Cristo non è rappresentato, ma appare. La realtà del quadro stesso anche al di là del suo soggetto sembra essere dell’ordine dell’apparizione e non dell’ordine della rappresentazione come a dire che qui Cristo si presenta senza essere rappresentato. Nel dipinto di Gegam Gegamyan – che dal punto di vista della qualità pittorica ricorda una delle plastiche rosse combuste dalla fiamma ossidrica di Alberto Burri  tra il rosso ed il nero si intravede forse qualche figura, ma come mutilata; figura sempre e comunque presa dal gorgo della pittura che sembra impedire che nel campo della rappresentazione si istalli un significato od un oggetto rappresentato o rappresentabile. Il dipinto di Gegamyan sembra oscillare tra il crepitare materico della fiamma ed il drappeggio di una stoffa ritorta su se stessa in mille pieghe inestricabili. In questa oscillazione sta tutta la sua forza e la sua forma. Il dittico di Umberto Ippoliti è “Mother”, dove le lettere che ne compongono il nome devono valere più che per il loro rinvio ad un significato (fosse pure il significato “madre”) per la loro ‘natura’ significante o meglio ancora: come lettere appunto, come segni, come tratti – tratti che emergono in tutto il loro nonsenso nella forma di incomprensibili ideogrammi cinesi. Allora il termine “Mother” non può non rimandare a qualcosa come una matrice, un intrico di segni; ad uno spazio da intendere come ricettacolo, la chora di cui parlava Platone nel Timeo. Questo fa tutta la qualità pittorica dell’opera di Ippoliti: una pittura che non è più dell’ordine della rappresentazione, ma è dell’ordine della scrittura; dove per scrittura non bisogna intendere una memotecnica, bensì quel che i tipografi chiamano il “corpo dei caratteri a stampa”. Qui la pittura si fa scrittura e la scrittura si fa pittura: scambio di un passare incessante che permette a chi guarda di liberarsi dall’ansiosa ricerca d’un significato da dare al dipinto.
a cura di  Michele Giacinto Bianchi e Stefano Valente
foto di Michele Giacinto Bianchi